Maggio è il mese della massima esplosione dei colori dei fiori, del rigoglio delle piante, dei frutticini che compaiono sugli alberi dove prima c’era stata fioritura. Maggio, il mese grande, dal latino maius e dalla radice mag.
Le viti allungano i tralci ogni giorno di più.
Anche gli olivi sono fioriti e il loro leggero profumo si può percepire grazie alla loro abbondanza.
I lillà fioriti attirano le farfalle
Ci sono fiori ovunque, di tutti i colori, di tutte le forme e dimensioni, fioriscono gli alberi, le piante che crescono sui muri,
le piante officinali e quelle spontanee.
Soprattutto fioriscono le rose, le regine del mese con tutti i loro incredibili e bellissimi colori, siano esse coltivate che spontanee.
Con questo articolo floreale e colorato festeggio gli 11 anni del mio blog, iniziato proprio il 22 maggio del 2012 con questo post.
Le mie cotogne cominciano a cadere, l’alberello che le produce è sempre molto generoso e i frutti profumati vanno utilizzati subito perché soggetti all’attacco della monilia.
Mi sono messa perciò a fare la marmellata come ogni anno, però questa volta avendo anche delle pere volpine cadute dalla pianta ho mescolato i due frutti e il risultato è stato eccellente. Una marmellata saporita e profumata con due frutti dimenticati: le cotogne e le pere volpine (chiamate in Umbria pere ruzze, cioè arrugginite per la colorazione della buccia).
Ho già parlato delle ricette con le cotogne in questo articolo e con le pere volpine in questo.
Questa è la mia ricetta:
Ingredienti
1 kg di cotogne pulite, 500 g di pere volpine, 200g di zucchero 350 ml di acqua.
Sbucciare e togliere il torsolo alle cotogne, togliere il torsolo anche alle pere ma senza sbucciarle,tagliarle in pezzetti, metterle a cuocere con l’acqua nella pentola a pressione. Dopo 10 minuti dall’inizio del sibilo spegnere il fuoco e far uscire il vapore.
Omogeneizzare la frutta con il frullatore a immersione, aggiungere lo zucchero e rimettere al fuoco, far bollire 10 minuti circa mescolando sempre perché tende a attaccarsi.
Spegnere il fuoco e invasare in vasetti di vetro, chiudere il coperchio e capovolgerli fino a che non si siano raffreddati.
Questo leccio imponente è riuscito a crescere nonostante la presenza della dura roccia vulcanica, le sue radici e il suo tronco si sono insinuati quando erano ancora giovani e sottili in fessure naturali che hanno contribuito ad allargare, stagione dopo stagione, anno dopo anno, sia con la sola pressione meccanica, sia approfittando della naturale erosione dovuta alle piogge, al gelo e al caldo. le radici hanno aggiunto anche un’azione chimica.
Questo Pinus nigra è riuscito invece con il suo sistema radicale poderoso ad ancorarsi e crescere sulla roccia calcarea.
Le radici di questi faggi ci testimoniano tutta la tenace lotta dell’albero per sopravvivere e crescere.
Qualche alberello cerca di sfruttare anche le fessure di città, se non verrà rimosso spaccherà anche l’asfalto.
In questo caso il fico affonda le radici nellaq copertura a volta di un manufatto archeologico, ma si è adattato a crescere capovolto! I rami invece di andare verso il cielo, hanno quasi raggiunto il suolo.
Anche questo enorme albero è cresciuto su antiche rovine ed ha trovato abbastanza nutrimento e spazio per diventare veramente imponente!
Le crete senesi sono tra i più caratteristici paesaggi toscani, attirano turisti da tutto il mondo e sulle tortuose strade che le attraversano è comune incontrare americani, tedeschi, giapponesi e coreani.
Sono un arido deserto color ocra o grigio che si tinge di verde e giallo in inverno e primavera, il colore dei germogli di grano e dei fiori delle erbe da foraggio. In estate è tutto d’oro per le spighe mature, per poi tornare all’aridità e nudità della terra riarsa e screpolata dopo la mietitura.
Le crete erano il fondale del mare pliocenico emerso e modellato dall’erosione dei corsi d’acqua che formano valli e solchi.
A volte il terreno è stato scavato in ripidi calanchi, dove l’erosione è stata più rapida. Altre volte si formano collinette di colore chiaro chiamate biancane come nel Deserto di Accona. Il loro colore è dovuto alla presenza in superficie di sali minerali, soprattutto solfato di sodio che rendono il terreno poco fertile e inadatto alla coltivazione. L’assenza di copertura vegetale aumenta l’insolazione e accentua il fenomeno della concentrazione di sali in superficie.
Il deserto di Accona è dipinto nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti “Effetti del Buongoverno in campagna” (1338-1340) che si trova nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena.
Le colline senesi conservano le fattorie sulla loro sommità e il loro profilo è accompagnato da filari di cipressi piantati lungo le strade di accesso a questi poderi, oggi spesso traformati in resorts di lusso.
Il paesaggio delle colline senesi ha il suo grande fascino e infonde un senso di serenità, ma fu teatro di una battaglia sanguinosissima fra le repubbliche di Siena e di Firenze che ancora a distanza di più di sette secoli ha lasciato uno strascico di rivalità e ostilità fra senesi e fiorentini.
La battaglia si combattè il 4 settembre 1260 nella piana presso il castello di Montaperti, vicino alla confluenza fra il fiume Arbia e il torrente Malena. Erano schierati in campo 15 mila senesi con i loro alleati ghibellini e 30 mila fiorentini con i loro alleati guelfi. L’armata senese riportò una vittoria completa facendo strage dei loro avversari, come canta Dante: “lo strazio e ‘l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso” Inferno X, 85-86.
Sulla collinetta ornata di cipressi una piramide di pietra ricorda ancora l’evento che i senesi rievocano ancora. La vittoria portò al dominio dei ghibellini sulla Toscana e alla predominanza della Repubblica di Siena sulla scena politica del tempo.
Ieri è stato il primo giono di primavera, l’equinozio. La rinascita della natura è cominciata già da qualche settimana, qualche pianta è più precoce ed approfitta degli ultimi giorni d’inverno per fiorire o dei primi della primavera meteorologica. Altre sono più prudenti, così che passeggiando nei campi si possono incontrare gemme ancora chiuse, ma così gonfie che basterà un giorno per aprirsi,
altre che sono ancora bene avvolte nelle brattee,
qualcuna ha già fatto spuntare le nuove foglioline impazienti di catturare i raggi tiepidi del sole.
Gli alberi di pesco hanno già fatto aprire i primi fiori e le prime gemme a foglia,
i prugnoli e i biancospini sono invece nel pieno del loro splendore, profumati e ronzanti!
Fra i tanti frutti dimenticati che crescono nel nostro terreno il pero cocomerino è fra i più recenti, lo abbiamo piantato solo 3 anni fa e ora è la prima volta che dà frutti.
Le sue pere sono piccole, la polpa è soda e granulosa. La caratteristica colorazione rossastra, soprattutto nella parte più interna intorno ai semi, dà il nome a questa varietà.
Il pero è un albero che da millenni fornisce buoni frutti agli esseri umani. Le innumerevoli varietà di peri che esistevano fino a pochi decenni fa derivavano dalla selezione e dal miglioramento genetico delle numerose specie di pero selvatico che ancora crescono nei boschi asiatici ed europei. Queste varietà differivano per forma, colore, sapore e calendario di maturazione con un’abbondanza che non si riscontra in altre specie da frutto.
Oggi il mercato offre solo una minima parte di queste varietà, quelle più grosse e soprattutto quelle che sopportano di essere conservate a lungo: l’Abate Fetel, la Decana del Comizio, la Passa Crassana, la Conference, la William, la Kaiser. Le varietà dimenticate non lo sono però del tutto, sopravvivono in mercati locali, in vivai specializzati e in piccoli appezzamenti di terra di agricoltori che le coltivano per il proprio consumo.
Con queste pere, come con le pere volpine si fanno ottime marmellate e dolci, le si possono anche cuocere con vino e zucchero per avere un buon dessert.
Per fare la marmellata occorrono: 1 kg di pere, 300 g di zuccero.
Si tolgono i semi e la parte interna più dura, si lascia la buccia. Si mettono i frutti in una pentola di acciaio dal fondo spesso con mezzo bicchiere di acqua e si fa cuocere fino a che non risultino sfatti. Si omogenizzano con il frullatore a immersione e si rimettono al fuoco con 300 g di zucchero per chilo di frutta. Si lascia cuocere fino a che la marmellata non abbia raggiunto la giusta consistenza, fino a che cioè una goccia messa su un piattino e fatta raffreddare non scorra con difficoltà quando si inclina il piatto.
Infine si mette nei vasetti di vetro che vanno chiusi subito e capovolti fino a che non si siano raffreddati. In questo modo si farà il vuoto all’interno e la marmellata si conserverà a lungo. Appena aperta va conservata in frigorifero.
Questo leccio maestoso ha una storia singolare, strettamente legata alla mia famiglia. Mia figlia aveva circa quattro anni quando, durante una gita alla pineta di Castel Fusano, grande area verde vicina al litorale romano, si mise in tasca diverse ghiande, come fanno tutti i bambini.
Arrivata a casa le rovesciò in un vaso da fiori in terrazzo. Nessuno se ne occupò più, passò l’autunno e l’inverno, in primavera mi accorsi che una delle ghiande aveva germogliato e aveva dato vita a un minuscolo leccio che sistemai in un vaso più grande dove crebbe.
Pochi anni dopo comprammo un vecchio casale in campagna con un po’ di terreno intorno, il leccio stava stretto nel vaso e lo trapiantammo vicino casa.
Si acclimatò benissimo, la zona di bassa collina è adatta a questa specie mediterranea. Ora sono passati 35 anni, mia figlia è adulta e il suo leccio una pianta alta e rigogliosa che ospita nidi e uccelli cinguettanti e nella stagione estiva fa un’ombra rigenerante!
Le canne palustri (Phragmites sustralis) e le canne domestiche (Arundo donax) sono così comuni presso le sponde dei nostri fiumi, sui bordi di stagni e paludi che non ci si fa neanche più caso. A volte sono sopportate con fastidio perché condiderate infestanti, eppure la loro utilità è sempre stata grandissima. La loro invadenza è dovuta ai fitti rizomi che si moltiplicano rapidamente e contribuiscono a consolidare i terreni melmosi delle sponde di fiumi e stagni e a rallentare la corrente durante le piene.
Molto importante è la loro funzione di puricare e ossigenare l’acqua: la purificano assimilando alcune sostanze inquinanti come l’azoto e il fosforo e eliminando molti batteri patogeni; la loro funzione ossigenatrice inoltre favorisce la moltiplicazione di batteri che decompongono la materia organica.
Sono graminacee come il frumento o l’orzo, le più alte della famiglia, l’Arundo può arrivare a 5 metri di altezza!
Hanno il fusto cavo ma rigido e resistente per cui sono state utilizzate per moltissimi scopi: si usavano per fare tetti, soffitti e tramezzi nelle case, consolidandole con l’argilla, piccoli mobili e flauti. Ancora oggi le utilizziamo per sostenere i pomodori!
In questa stagione le carciofaie dell’orto familiare producono i fiori, grandi, viola acceso e altissimi. I carciofi diventano anche decorativi e mostrano tutta la loro affinità con i cardi di cui sono parenti stretti. La specie coltivata infatti deriva dal Cynara cardunculus ancora presente allo stato selvatico.
Quello che noi mangiamo è il capolino fiorale immaturo protetto da brattee dure e in alcune varietà spinose. Sono quelle che togliamo quando prepariamo i carciofi. Da questo “cuore” del carciofo si sviluppa una peluria che troviamo e togliamo quando la stagione dei carciofi è ormai avanzata. Col procedere della fioritura da questa peluria si sviluppa il grande fiore che attira gli insetti, le brattee aperte si possono notare alla sua base.
Tra vent'anni non sarete delusi dalle cose che avete fatto ma da quelle che non avete fatto. Allora levate l'ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate. Scoprite (Mark Twain)