Alzo spesso gli occhi in alto camminando per strade e vicoli e mi accorgo di particolari che sfuggono a chi guarda solo davanti ai suoi piedi. Sono particolarmente attratta dalle finestre alle quali spesso ci sono tendine gioiello, vasi di fiori e belle ringhiere. Altre volte alla finestra compaiono strani personaggi.
Siena, Contrada del Bruco, scultura di Pier Luigi Olla.
A volta un po’ inquietanti
Castelnuovo Val di Cecina (Pi), località La Leccia
In borghi minuscoli può comparire uno sguardo sul mondo intero.
A volte alla finestra non c’è la principessa, ma il principe ranocchio!
Il fiume Nera, si origina nel cuore del Parco Nazionale dei Monti Sibillini circa a 900 m s.l.m. a Vallinfante, una frazione di Castel d’Angelo sul Nera (provincia di Macerata), paese quasi completamente distrutto dal sisma del 2016.
La sorgente che dà origine al Nera ha alle spalle la catena dei Monti Sibillini costituita da rocce calcaree molto fessurate, che assorbono le acque provenienti dalle piogge e dallo scioglimento delle nevi e le fanno risorgere poco a valle, per questo la portata della sorgente è già notevole: 100 litri di acqua al secondo.
Proseguendo il suo percoso verso valle il torrente si ingrossa subito ricevendo le acque provenienti da altre sorgenti e da torrenti alimentati dalle acque delle montagne alle spalle. Dopo circa 20 chilometri entra in Umbria che attraverserà fino quasi alla confluenza con il Tevere, al confine fra Umbria e Lazio, presso Orte (Vt). In tutto un percorso di poco più di 100 chilometri che attraversa la suggestiva Valnerina, ricca di gole e borghi medioevali come Vallo di Nera, Sant’Anatolia di Narco, Ferentillo.
I romani lo chiamavano Nar nome che deriva da una antica radice prelatina nar o ner che probabilmente significa acqua. Virgilio lo cita con questo nome nel libro VII dell’Eneide.
Riceve numerosi e copiosi affluenti che lo rendono sempre ricco di acque. La confluenza con il fiume Velino è spettacolare perché quest’ultimo compie un salto di 165 m prima di confluire nel Nera sottostante formando le bellissime Cascate delle Marmore.
Pochi chilometri più a valle attraversa Terni che deriva il suo nome antico, Interamna Nahars (fra i fiumi), proprio dall’essere alla confluenza fra il Nera e il torrente Serra.
Più a valle scorre ai piedi della città di Narni, il cui nome è anch’esso derivato da Nar. Si può seguire il corso del fiume percorrendo a piedi la vecchia ferrovia abbandonata. Si passa accanto all’arcata residua del Ponte di Augusto che permetteva alla via Flaminia di scavalcare il fiume.
Ormai in pianura il fiume forma il piccolo lago artificiale di San Liberato che ospita una ricca fauna stanziale e migratoria.
Il fiume si avvia verso il confine fra Umbria e Lazio dove, nel comune di Orte (Vt), avviene la confluenza con il Tevere di cui è il più importante affluente tanto che il detto recita; “Il Tevere non sarebbe Tevere se il Nera non gli desse da bevere”.
Odore di zolfo, vapori che escono dal terreno, sibili, nebbia, colorazioni del terreno, la valle dove attualmente c’è il paese di Larderello, una frazione di Pomarance (Pi), sembrava per gli antichi l’anticamera del regno degli Inferi.
Molte testimonianze ci sono arrivate fin dal III secolo a. C. quando in questi luoghi vivevano gli Etruschi. In seguito ne hanno parlato scrittori romani come Lucrezio Caro, che parla di “monti che fumano”, Tibullo, Strabone. Anche Dante ne prende ispirazione per le sue descrizioni infernali.
I vapori che escono dal terreno vennero sfruttati fin dal tempo degli Etruschi per farne terme calde medicamentose, ma anche per ricavarne sali minerali che si depositavano nei lagoni, soprattutto sali di boro, usati per scopi farmaceutici e per produrre fissanti per colori e smalti.
L’uso delle acque termali continuò in epoca romana; nel medioevo venne ripresa l’estrazione dei sali minerali depositati da queste emanazioni: zolfo, vetriolo, allume, boro, tanto che queste terre vennero contese fra le repubbliche toscane, che motivi di contesa ne avevano in quantità. In particolare era importante economicamente l’estrazione del boro che prima veniva importato dal Tibet.
Fu nel 1827 che F.J. de Larderel, industriale toscano di origine francese, perfezionò il metodo di estrazione del boro dai cosiddetti “lagoni” e per la prima volta per far evaporare l’acqua utilizzò l’energia che proveniva dal terreno.
Nel luglio del 1904 il principe Ginori Conti, genero di Larderel, attuò un esperimento rivoluzionario: con un motore azionato dal vapore e collegato a una piccola dinamo riuscì a far accendere cinque lampadine. Per la prima volta al mondo si ottenne energia elettrica dall’energia prodotta dal vapore geotermico.
Nel 1905 il villaggio di Larderello, sorto per ospitare gli operari della fabbrica di estrazione del boro e così chiamato dal nome dell’imprenditore, fu il primo paese al mondo ad essere illuminato da lampadine elettriche.
Nei decenni successivi venne costruita e via via potenziata la centrale elettrica alimentata a vapore che consentì di alimentare con la corrente elettrica anche Volterra e Pomarance. Nel 1939 venne aggiunta una seconda centrale geoelettrica che aumentò ancora la potenza installata, ma la devastazione della guerra distrusse gli impianti che verranno ripristinati solo nel 1949; già nel 1950 si aggiunse una terza centrale.
Oggi gli impianti geotermoelettrici italiani, tutti ubicati in Toscana, producono più di 5 miliardi di kWh l’anno, con i quali ci poniamo all’avanguardia nel mondo per lo sfruttamento di questo tipo di energia.
A Larderello è possibile visitare il Museo della Geotermia con l’interessante storia della geotermia italiana e una possibile visita ad uno dei soffioni.
Non solo la Valle dell’Inferno, ma una zona molto ampia è interessata da questi fenomeni geologici causati da più fattori concomitanti che raramente si riproducono insieme:
la presenza a circa 7-8 chilometri di profondità di un corpo magmatico in raffreddamento,
la presenza di rocce che fanno da serbatoio all’acqua piovana, che viene trasformata in vapore dal calore,
la presenza di faglie nel terreno che hanno provocato fessure sub verticali da cui fuoriesce il vapore.
Nel comune di Monterotondo Marittimo (Gr) è stato istituito un interessantissimo e suggestivo Parco delle Biancane, nome derivato dal fenomeno dello sbiancamento del terreno causato dall’aggressività di alcuni componenti delle esalazioni del vapore, soprattutto con la formazione di gesso.
La passeggiata su e giù per il percorso delle biancane, fra esalazioni si vapori e paesaggio lunare è estremamente suggestiva. Intorno alle fessure da cui fuoriesce il vapore si formano depositi di minerali, fra cui il più evidente è lo zolfo dall’evidente colore giallo.
Anche la vegetazione è particolare perché il riscaldamento naturale dell’aria e del terreno e l’acidità di quest’ultimo consente la crescita di specie botaniche diverse da quelle dei territori vicini, come la quercia da sughero e l’erica, che crescono bene in terreni acidi e in climi miti.
La zona da visitare è ampia, oltre ai fenomeni geotermici vale la pena raggiungere gli antichi borghi medioevali e i castelli, eretti su colline da cui si può ammirare un bel panorama con oliveti, cipressi, boschi di lecci, e sullo sfondo i vapori che escono dalle torri di raffreddamento delle centrali geotermiche.
Malasaña, Lavapiés, La Latina sono quartieri tipici del centro di Madrid, un tempo barrios popolari, ora cuore della movida madrilena,
A due passi dalle vie e dalle piazze più conosciute e più frequentate: Plaza Mayor, la Gran Vìa, Plaza de la Puerta del Sòl, si può passeggiare fra le piccole e variopinte stradine medioevali e osservare tutti i colorati particolari: le insegne dei negozi, il cartello stradale accigliato
i tipici balconcini spagnoli, piccoli ma stracolmi di piante,
o di panni stesi. Qualcuno riesce anche a prendere il fresco sulla sua seggiolina.
C’è anche chi ha trovato una tranquilla piazzetta in cui leggersi il giornale.
Nel Dia de Ispanidad festa nazionale che si festeggia il 12 ottobre, giorno della scoperta dell’America, molti hanno appeso alla finestra la bandiera repubblicana.
I murales colorano le strade,
si possono incontrare ancora negozi tradizionali.
Vicoliin cui è piacevole girovagare senza meta per poi sedersi in uno dei tanti tapas bar o ristorantini a riposarsi.
La Montagna dei Fiori è un gruppo montuoso del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, fra le sue pareti il fiume Salinello ha scavato un canyon fra i più notevoli dell’Appennino: è lungo più di 3 chilometri e le sue pareti sono quasi verticali ed in alcuni tratti così vicine da toccarsi quasi. L’ambiente è molto suggestivo e ricco di specie animali rare come l’aquila, il falco pellegrino e il lupo e di una vegetazione che risale al Terziario, prima delle ultime glaciazioni.
L’uomo ha frequentato questa gola fin dalla preistoria lasciando innumerevoli testimonianze delle sue attività e dei suoi culti. I ritrovamenti preistorici si concentrano soprattutto nelle grotte che si aprono nelle sue pareti verticali e che sono da sempre per gli esseri umani oltre che un riparo, un luogo sacro.
In particolare la Grotta di Sant’Angelo, la più grande delle numerose cavità che si aprono nel complesso montuoso, è stata per gli esseri umani un luogo di culto praticamente ininterrottamente dalla preistoria ai giorni nostri.
Le frequentazioni furono più sporadiche nel Paleolitico superiore, divennero maggiori nel Neolitico (4600-4200 a.C.) fino all’Età del Bronzo (II millennio a. C.) quando fu utilizzata come luogo di culto e sepoltura.
La frequentazione riprese nel Medioevo quando monaci eremiti vi si stabilirono e ricavarono celle negli ambienti più piccoli e perfino una cisterna. La sala più ampia della caverna fu adibita a chiesa dedicata al culto di San Michele Arcangelo, aveva due altari, quello superstiteè formato da una pesante lastra di roccia incisa a caratteri gotici, risale probabilmente all’XI secolo.
La grotta è proprietà della chiesa e vi si celebra ancora messa due volte all’anno, il 1° maggio e il 29 settembre per San Michele.
Il culto di San Michele Arcangelo è fortemente radicato nell’Italia centro-meridionale ed è spesso legato a grotte o luoghi impervi e rocciosi. Il santuario a lui dedicato sul Gargano divenne meta di pellegrinaggi provenienti anche da luoghi lontani e viene frequentato anche ai giorni d’oggi.
Il culto si diffuse anche in altre zone dell’Appennino grazie ai pastori transumanti e si sovrappose al preesistente culto di Ercole molto diffuso nella popolazione italica dedita alla pastorizia. Entrambi i protagonisti del culto sono guerrieri, uno armato di spada, l’altro di clava. Caratteristiche queste gradite ai pastori pronti a difendere le greggi dagli attacchi di fiere e predoni. Io ne ho parlato in questo articolo.
Il culto di San Michele si ritrova anche in altre grotte dell’Appennino centrale, sulla Majella, sui Monti Carseolani, a Liscia ed è stato praticato in maniera ininterrotta dal Medioevo.
A Sant’ Anatolia di Narco, in Valnerina si può visitare un interessante e completo Museo della Canapa, fibra tessile ora dimenticata, ma un tempo coltivata dalle famiglie e trattata in casa in tutti i passaggi per renderla adatta alla tessitura. Le famiglie avevano il proprio telaio e le ragazze si tessevano la biancheria per il proprio corredo.
Una paziente e appassionata ricerca ha permesso di recuperare gli antichi telai, gli orditoi e gli altri strumenti per la lavorazione e la tessitura e di esporli in diverse sale di quello che è diventato un museo diffuso e un laboratorio di didattica della tessitura.
La canapa una volta raccolta veniva messa a macerare, poi battuta per liberarla della parte legnosa, quindi veniva il momento della filatura ed infine si tesseva.
I telai erano di legno massiccio e una volta sparita la tradizione della tessitura casalinga molti furono fatti a pezzi per farne legno per il camino. Questo bel telaio fu recuperato e restaurato per farci conoscere un aspetto delle vecchie tradizioni ora dimenticato.
Questo dell’immagine sotto è invece un telaio per fasce da neonato, niente a che vedere con i moderni pannolini usa e getta!
Telaio per fasce da neonato
Nel museo ci sono anche esposte opere d’arte fatte con la canapa e i “lenzuoli sospesi”: grandi lenzuoli che le donne si riuniscono per ricamare insieme. Ognuna ricama il suo nome o un simbolo su un angolo di lenzuolo. Un modo di lavorare in compagnia, chiacchierando e scambiando ricordi. Il lenzuolo una volta finito viene esposto come un’opera d’arte.
Sull’antica via Flaminia, presso l’antica città di Carsulae, sulla provinciale che da Acquasparta va verso Massa Martana, si può raggiungere con un breve tratto di strada sterrata in buone condizioni, il Ponte Fonnaia costruito al tempo di Augusto per permettere alla via Flaminia di superare una profonda forra scavata da un modesto affluente del torrente Naia, quasi sempre in secco ma capace di piene rovinose.
Il ponte è seminascosto dalla vegetazione, ma ancora in buone condizioni. Fu costruito in opera cementizia ricoperta di blocchi di travertino, la sua altezza supera gli 8 metri.
Sopra, dove un tempo passavano eserciti e mercanti, una tranquilla sterrata di campagna è frequentata solo da qualche raro turista che riesce ad arrivare qui seguendo la segnaletica visibile sulla provinciale, vicino alla stazione di Massa Martana.
La via Flaminia attuale in realtà è a poche centinaia di metri, trasformata in superstrada e percorsa incessantemente da Tir ed auto.
Un suggestivo tuffo nel lontano passato, in un angolo verde e solitario dell’Umbria.
A poche centinaia di metri dal ponte c’è una catacomba cristiana del IV- V secolo d. C., unica nel loro genere in tutta l’Umbria. Per poterla visitare ci si può rivolgere al Comune di Massa Martana.
La splendida natura del Gran Paradiso può senza dubbio indurre a pensare che il nome sia stato dato dagli antichi abitanti per paragonarlo a quel luogo di delizie e beatitudine. In realtà, a parte la bellezza dei luoghi, la vita delle popolazioni di montagna di un tempo non doveva essere proprio beata.
Il nome in realtà deriva da un fraintendimento: il nome originario sembra essere stato Gran Paréi, grande parete nel patois valdostano.
Ci sono altri esempi di questi fraintendimenti toponomastici, alcuni abbastanza buffi: è il caso del Golfo Aranci vicino a Olbia, dove arrivano e partono tanti traghetti. Nella dizione locale è in realtà Gulfu di li ranci, cioè “Golfo dei granchi”, ben più plausibile degli agrumi, che da queste parti non erano coltivati. Fu probabilmente attribuito in maniera errata da cartografi piemontesi.
Il terzo caso di fraintendimento è quello di un fiume poco conosciuto, ma molto suggestivo: il Rio Stella in Romagna, in una zona carsica che ha molte grotte e altri fenomeni carsici nel gesso. Uno dei più importanti è l’inghiottitoio del Rio Stella al confine fra i comuni di Brisighella, Riolo Terme e Casola Valsenio. Le acque del fiume si inabissano, scorrono sottoterra per circa un chilometro e mezzo e poi risorgono nella valle del Senio con il nome di Rio Basino.
Il nome del Rio Stella è in realtà dovuto ad una svista dei topografi dell’Istituto Geografico Militare, il nome originario era in realtà Rio Sotterra fino alla metà dell’ottocento e poi trasformato in Stella probabilmente per un fraintendimento del nome che i locali pronunciano S’terra.
Chissà quante sviste ci sono nella toponomastica italiana! Mi divertirò a scoprirne altre.
Batacchio, picchiotto, battente, battiporta, tanti termini per indicare un oggetto oggi desueto, ma ancora presente sui portoni delle case dei piccoli centri italiani.
Utilizzati fin dall’antica Roma per bussare ai portoni e annunciarsi ai padroni di casa, erano spesso semplici anelli di metallo, ma altre volte rappresentavano figure più o meno complesse, fatte in serie o forgiate da abili artigiani, a volte veri artisti.
Curiosando sui portoni dei nostri borghi si possono trovare pugni, teste egizie, teste di leone e di animali vari, aquile per darsi un tono d’importanza.
Sui muri delle antiche case sono a volte ancora conservati altri oggetti desueti: gli anelli per legare gli animali. Anche questi hanno forme diverse, a volte semplici anelli, a volte ci sono anche raffigurate le teste degli animali, reali o immaginari.
Le vecchie case di campagna si limitavano a incorporare nella muratura una pietra forata cui attaccare l’asino.
Nella bella e ospitale Bertinoro, circondata da vigneti esiste ancora la colonna dell’ospitalità, dove ogni anello era collegato a una famiglia che avrebbe ospitato il viandante che avesse attaccato ad esso il suo cavallo.
Le crete senesi sono tra i più caratteristici paesaggi toscani, attirano turisti da tutto il mondo e sulle tortuose strade che le attraversano è comune incontrare americani, tedeschi, giapponesi e coreani.
Sono un arido deserto color ocra o grigio che si tinge di verde e giallo in inverno e primavera, il colore dei germogli di grano e dei fiori delle erbe da foraggio. In estate è tutto d’oro per le spighe mature, per poi tornare all’aridità e nudità della terra riarsa e screpolata dopo la mietitura.
Le crete erano il fondale del mare pliocenico emerso e modellato dall’erosione dei corsi d’acqua che formano valli e solchi.
A volte il terreno è stato scavato in ripidi calanchi, dove l’erosione è stata più rapida. Altre volte si formano collinette di colore chiaro chiamate biancane come nel Deserto di Accona. Il loro colore è dovuto alla presenza in superficie di sali minerali, soprattutto solfato di sodio che rendono il terreno poco fertile e inadatto alla coltivazione. L’assenza di copertura vegetale aumenta l’insolazione e accentua il fenomeno della concentrazione di sali in superficie.
Il deserto di Accona è dipinto nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti “Effetti del Buongoverno in campagna” (1338-1340) che si trova nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena.
Le colline senesi conservano le fattorie sulla loro sommità e il loro profilo è accompagnato da filari di cipressi piantati lungo le strade di accesso a questi poderi, oggi spesso traformati in resorts di lusso.
Il paesaggio delle colline senesi ha il suo grande fascino e infonde un senso di serenità, ma fu teatro di una battaglia sanguinosissima fra le repubbliche di Siena e di Firenze che ancora a distanza di più di sette secoli ha lasciato uno strascico di rivalità e ostilità fra senesi e fiorentini.
La battaglia si combattè il 4 settembre 1260 nella piana presso il castello di Montaperti, vicino alla confluenza fra il fiume Arbia e il torrente Malena. Erano schierati in campo 15 mila senesi con i loro alleati ghibellini e 30 mila fiorentini con i loro alleati guelfi. L’armata senese riportò una vittoria completa facendo strage dei loro avversari, come canta Dante: “lo strazio e ‘l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso” Inferno X, 85-86.
Sulla collinetta ornata di cipressi una piramide di pietra ricorda ancora l’evento che i senesi rievocano ancora. La vittoria portò al dominio dei ghibellini sulla Toscana e alla predominanza della Repubblica di Siena sulla scena politica del tempo.
Tra vent'anni non sarete delusi dalle cose che avete fatto ma da quelle che non avete fatto. Allora levate l'ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate. Scoprite (Mark Twain)