Trilussa, un poeta romanesco

A Trastevere, accanto al trafficatissimo lungotevere, di fronte a Ponte Sisto, si apre la piccola piazza Trilussa, dedicata a uno dei più noti poeti contemporanei in romanesco, Carlo Alberto Salustri, conosciuto con lo pseudonimo di Trilussa, anagramma del suo cognome.

Nella piazzetta oltre alla fontana dell’Acqua Paola c’è il monumento al poeta qui collocato nel 1954.

Ironico e arguto, Trilussa si è espresso in un dialetto solo apparentemente spontaneo, in realtà mescolato all’italiano fino ad ottenere un linguaggio raffinato.

Nella cultura popolare romana Trilussa è ben conosciuto ed alcuni suoi versi sono diventati proverbiali come i “polli di Trilussa”, dalla poesia “La Statistica”.

Sai ched’è la statistica? È na cosa
che serve pe fa’ un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che sposa.
ma pe’ me la statistica curiosa
è dove c’entra la percentuale,
pe’ via che lì la media è sempre eguale
puro co’ la persona bisognosa.
M spiego: da li conti che se fanno
secondo le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e se nun entra nelle spese tue
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magma due.

il sorriso della madre

Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem.

(Virgilio, Bucoliche, IV Ecl.)

Comincia, piccolo bimbo, a conoscere la madre dal sorriso.

Il neonato, nuovo al mondo e ai rapporti umani, inconsapevole di sé, ri-conosce se stesso nel volto sorridente della madre, si sente accolto e attraverso lei percepisce il mondo intorno come accogliente.

La natura lo ha dotato di una preferenza innata per il volto umano da cui è attratto fin dai primi giorni di vita, quando le capacità visive sono ancora molto limitate, riesce però a percepire l’ovale di un volto che si trova a circa 20 cm di distanza e a fissare i propri occhi negli occhi dell’adulto che lo tiene in braccio.

Il cucciolo dell’uomo nasce totalmente inetto ed ha bisogno per sopravvivere di qualcuno che si occupi di lui, non soltanto per nutrirlo e coprirlo, ma anche per trasmettergli con la presenza e le interazioni, sicurezza e affetto. In genere è la madre che soddisfa a questi bisogni con la vicinanza, il contatto fisico, la voce e con tutta una gamma di gesti che accolgono, proteggono, gratificano, danno insomma sicurezza e benessere.

La principale potenzialità del bambino, ciò che lo differenzia dai cuccioli degli altri animali, è la sua attitudine a comunicare fin dalla nascita con gli adulti che si prendono cura di lui; se non si esprime con le parole non significa che non abbia nulla da dire e da intendere.

D’altra parte l’adulto che risponde ai suoi segnali, lo consola e lo fa sorridere ne ricava una sensazione di piacere che lo porta ad entrare in relazione con lui ogni volta sia possibile. Si mettono così le basi per le future relazioni del piccolo umano, nato come essere sociale.

 

figli

 

I vostri figli non sono figli vostri…

sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee.
Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni.
Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri.
Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti

…..

(Kahlil Gibran)

è nato un bocciolo di rosa

 

Nel cuore dell’inverno

in mezzo al fiume

è nato un bocciolo di rosa.

Benvenuto piccolo fiore,

che la vita ti sia dolce!

l’antica arte del vasaio

Ficulle è un grazioso paese a circa venti chilometri da Orvieto, sulla statale Umbro-Casentinese-Romagnola, zona di grandi coltivazioni di vigneti, con insediamenti che risalgono all’epoca degli Etruschi. Le colline argillose e calanchive hanno consentito fin da tempi antichissimi, sicuramente all’epoca degli Etruschi e poi dei Romani, l’estrazione dell’argilla per fabbricare vasi, orci, ciotole e contenitori di ogni tipo. Probabilmente anche il nome Ficulle deriva dal latino figulus (vasaio).

La fabbricazione di terrecotte vi è conservata da un unico artigiano, Fabio Fattorini, che imparò fin da bambino l’antica arte e continua con passione a lavorare secondo i metodi tradizionali.  L’argilla non si estrae più nella zona, ma la lavorazione rimane quella di una volta, ogni oggetto viene prodotto al tornio, un piatto girevole su cui viene posta la quantità di argilla necessaria che si modella solo con l’uso delle mani. Vedendo lavorare l’artigiano ci si stupisce come dalle sue mani in pochi istanti un informe ammasso di argilla si trasformi in oggetti dalle forme perfettamente simmetriche, diventa una ciotola che si trasforma in un vaso e questo in una brocca!

Ficulle

Dopo il tornio la lavorazione è ancora lunga e richiede pazienza e attenzione vista la fragilità del materiale, le terrecotte vengono messe a seccare all’aria e devono essere rigirate più volte perché ciò avvenga in maniera uniforme.

Ficulle

Verranno poi dipinte secondo l’antica tecnica: vengono spruzzate con un rametto di erica immerso in una poltiglia di ossido di rame (che dà il colore verde-azzurro) e ossido di manganese per il colore marrone. Il risultato sono oggetti ai quali le macchie di colore irregolari danno un fascino particolare e li rende molto vicini al gusto moderno. Con gli stessi colori altri oggetti vengono dipinti con colature.

ceramiche

Il passaggio successivo è la rivestitura con una vernice vetrosa trasparente ed infine avviene la cottura al forno ad altissima temperatura.

Una lavorazione lunga e accurata in cui l’abilità e l’attenzione umana hanno un ruolo fondamentale. Dalle mani dell’artigiano escono infiniti oggetti: coppe, ciotole, insalatiere, piatti e piattini, tazzine, vassoi, vasi, brocche e anfore, oggetti di uso comune, ma con una loro bellezza e dignità che l’oggetto industriale non può possedere.

Sono particolarmente legata a oggetti di questo tipo perché mi ricordano i recipienti che usava mia nonna, fra questi la grande conca in cui metteva a lievitare l’impasto del pane.

ceramiche (2)

un’eroina della Repubblica Romana

Una storia romantica e tragica legata ai combattimenti per la difesa della Repubblica Romana del giugno 1849, quella di Colomba Antonietti.

Nata a Bastia Umbra nel 1829 si sposò giovanissima con il conte Luigi Porzi, un ufficiale delle truppe del pontefice. Il matrimonio fu celebrato di notte, quasi di nascosto perchè le famiglie erano entrambe contrarie.

Il giovane ufficiale andò a combattere in Veneto contro gli austro-ungarici nel  1848 e poi a Roma nel 1849 per difendere la Repubblica Romana insieme alle truppe garibaldine. Colomba si tagliò i capelli, si vestì da ufficiale e seguì il marito per combattere al suo fianco.

Morì il 13 giugno del 1849, a poco più di vent’anni, colpita da una palla di cannone durante l’assedio che le truppe francesi accorse in aiuto del papa imposero alla città e che ebbe come fulcro porta San Pancrazio sul colle del Gianicolo.

gianicolo gennaio 16 080

Quando la salma rivestita con la divisa militare venne trasportata per le vie di Roma i patrioti presenti le lanciarono petali di rosa bianchi.

È sepolta nel Mausoleo Ossario del Gianicolo, dove riposano le salme dei giovani garibaldini morti per la difesa di Roma in quel giugno di 167 anni fa. Il suo busto fu collocato nei giardini del Gianicolo insieme a quelli di altri patrioti difensori della Repubblica Romana.

Gianicolo

i biscotti della nonna

Ho cercato di ricordare la ricetta dei biscotti che faceva sempre mia nonna, al suo paese si chiamavano anisette, ma so che altrove biscotti simili hanno altri nomi. Glieli ho visti fare tante di quelle volte! L’ho anche aiutata non molto efficacemente a montare la massa di uova e zucchero in tempi in cui si faceva tutto con olio di gomito: lei ne faceva una gran quantità per poi portarli al forno del paese, ma non ho mai imparato le dosi.

Quindi mi sono data da fare con espertimenti che anche se non hanno prodotto esattamente gli originali gli sono andati vicino.

Sono biscotti semplici da fare e molto sani perché non hanno grassi. Quindi questi sono gli ingredienti:

  • 85 g di farina tipo 0
  • 85 g di zucchero
  • 3 uova
  • semi di anice

Battere i tuorli con lo zucchero fino a che non sono montati diventando quasi bianchi, aggiungere un po’ per volta la farina e lo zucchero mescolando per amalgamare il tutto. Montare a neve le chiare d’uovo ed aggiungerle mescolando delicatamente alla pastella, aggiungere i semi di anice.

Accendere il forno a 180° C e preparare intanto la teglia ricoprendola uno strato di cartoncino che eviterà che i biscotti si brucino sul fondo, ricoprirlo con carta da forno e disporvi sopra a giusta distanza la pastella a cucchiaiate: un cucchiaio di pastella per ogni biscotto.

Quando il forno è ben caldo infornare i biscotti che saranno cotti in 20 minuti circa.

biscotti all'anice

il quartiere Malasaña di Madrid e l’eroina Manuela

Madrid è una bella città, interessante e vivace, con ampi parchi, vie larghe ed animate, trasporti efficienti. Non parlerò però di tutto ciò che abbiamo visto e visitato e che è conosciutissimo. Voglio invece descrivere una storia particolare e forse sconosciuta agli stranieri.

Il quartiere Malasaña a Madrid è situato in centro, vicino alla Gran Vìa, ma contrasta piacevolmente con i palazzi monumentali e imponenti delle larghe strade limitrofe. E’ infatti un quartiere popolare che è diventato  alternativo, il fulcro della Movida madrilena a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, alla fine della dittatura franchista. Pedro Almodóvar, il popolare regista spagnolo, soprattutto nei suoi primi film, ritrae i fermenti trasgressivi di quei primi anni di ritrovata libertà.

È anche oggi frequentatissimo dai giovani madrileni e dagli studenti stranieri che tirano a far tardi bevendo e chiacchierando seduti ai bar delle sue piazze, anche se questa vita notturna provoca l’insonnia e le proteste dei residenti che pur sono particolarmente tolleranti ed accoglienti.

madrid 141

Visitato di giorno è molto piacevole e non affollato, ci si può fermare a guardare i murales o passeggiare tranquillamente nelle sue strade fiancheggiate dalle case popolari con gli stretti balconi dalle ringhiere di ferro battuto, per poi sedersi ad un bar per una bibita con tapas.

madrid 142

Negozietti vintage o di abbigliamento giovane si alternano ad atelier alternativi o a botteghe storiche dalle tradizionali insegne a mosaico.

madrid 140

La storia che voglio raccontare però è quella dell’origine del suo nome.

Manuela Malasaña era una giovanissima ricamatrice di quindici anni che viveva in quello che allora si chiamava barrio de Maravillas. Il 2 maggio del 1808 la popolazione di Madrid si sollevò contro le truppe di Napoleone che avevano occupato la città, ma i francesi soffocarono la rivolta nel sangue. Gli eventi furono descritti in maniera drammatica nei due dipinti di Goya intitolati “2 Maggio 1808” e “3 maggio 1808” conservati al museo del Prado.

Esistono diverse versioni della sua morte, secondo le più conosciute fu uccisa mentre dal balcone della sua casa aiutava i combattenti, secondo un’altra cercò di difendersi dai soldati francesi che cercavano di violentarla, con le forbici che usava per il suo lavoro, secondo un’altra ancora fu arrestata e giustiziata perchè trovata in possesso di un’arma, le forbici appunto.

La morte della ragazza fece una grande impressione sugli abitanti del quartiere, era bella, giovanissima e molto conosciuta per la sua simpatia, diventò un’eroina della lotta per la libertà. Madrid le dedicò una via, successivamente tutto il quartiere cominciò ad essere chiamato con il suo nome.

La piazza in cui abitava e nella quale fu probabilmente uccisa si chiama proprio plaza del Dos de Mayo, nel cuore del quartiere. Il monumento al centro rappresenta la porta della vecchia caserma di artiglieria che si trovava vicino, con le statue degli ufficiali Daoìz e Velarde che si unirono alla rivolta popolare e furono uccisi in combattimento dai francesi.

madrid 137

la coperta centenaria

La conquista di Gorizia da parte dell’esercito italiano avvenne fra l’8 ed il 9 agosto del 1916 dopo 10 giorni di sanguinosissimi combattimenti lungo le sponde dell’Isonzo e le montagne del Carso, che provocarono centomila morti fra i due eserciti contrapposti.

Mio nonno era uno delle centinaia di migliaia di soldati che combatterono su quei fronti. Qualche storia di guerra la raccontò per noi bambini, ma era piuttosto parco, troppo crudi e sanguinosi erano stati gli eventi. Mi rimase impresso quando raccontava del suo cavallo che durante i bombardamenti si metteva con il muso accanto al suo viso a cercare conforto e protezione.

Il castello di Gorizia era stato gravemente danneggiato e suppellettili ed oggetti giacevano sparsi. Mio nonno prese una coperta di lana, i nostri soldati erano malamente equipaggiati. Questa coperta lo accompagnò in altre battaglie, la guerra sarebbe durata ancora più di due anni con vittorie e sconfitte ed ancora immani carneficine.

Quando finalmente finì ed i soldati tornarono a casa la coperta seguì ancora mio nonno, finalmente destinata al riposo di una persona che poteva dormire nel suo letto, in pace. In pace per poco, perché non gli fu permesso di dormire sempre nel suo letto da un regime che aveva deciso di perseguitare chiunque non fosse in linea. Chissà se la coperta lo seguì anche nei soggiorni obbligati in carcere o al confino.

Vennero i figli e poi i nipoti, la coperta continuava a svolgere il suo compito di riscaldare il sonno delle persone di famiglia. Arrivò anche a me, era una coperta calda e mi ha accompagnato per la mia infanzia ed adolescenza: una volta non si buttava via niente e mia nonna o forse mia madre intervennero più volte per rammendarla.

Infine è approdata nella mia casa di campagna a riscaldare i sonni di mio figlio, ma attraverso quattro generazioni poveretta non ne poteva più, ormai le parti lise erano troppe e non più rammendabili.

Io però non volevo buttare via la coperta centenaria, che aveva accompagnato le persone della mia famiglia e la storia del secolo scorso. Ho quindi provato a rimediare come potevo: l’ho distesa sul tavolo ed ho ritagliato tutte le parti irrimediabilmente lise. Ne ho ricavato dei rettangoli, non tutti uguali, ma abbastanza grandi, poi con lana di colori intonati li ho bordati con il punto festone e poi uniti l’uno all’altro con giri di maglia bassa all’uncinetto. Infine ho rifinito il tutto con giri di maglia bassa a righe di due colori. Ne è risultato un plaid, sempre comodo nei rigidi inverni in campagna. E la coperta di Gorizia, in versione ridotta, ma sempre calda, è ancora con noi.

alviano 15 luglio 14 022

 

i suoni dei miei viaggi: la canzone popolare africana

Accendendo la radio qualche giorno fa ho riascoltato con piacere “Malaika”, una delle più belle canzoni d’amore africane, cantata in swaili da Miriam Makeba e Harry Belafonte nel 1965.

Ho così ripensato ai miei tanti incontri con la musica africana, durante il periodo in cui lavorammo in Mozambico, all’inizio degli anni ’80 e ho deciso di ricordare quell’esperienza in un secondo articolo per “Il Senso dei miei viaggi” di Monica Viaggi e Baci.

La musica è parte fondamentale della cultura del popolo mozambicano ed è molto frequente incontrare musicisti di strada che improvvisano un batuque al mercato, utilizzando un vecchio bidone come tamburo. Immancabilmente la gente fa capannello intorno e comincia a ballare, le donne si muovono con tutto il loro fagottello sulla schiena, un paffuto bebè che non se ne stupisce minimamente.

Ma le foto di quest’articolo le facemmo tutte al Festival della Canzone e della Musica Tradizionale di Maputo nel 1980. Non sono foto digitali e la loro qualità lascia molto a desiderare, ma furono scattate da noi da lontano e con gli scarsi mezzi a nostra disposizione; allora in Mozambico non si trovavano neanche le pellicole. Sono però per noi una testimonianza ed un ricordo.

Gli artisti suonavano strumenti musicali ricavati da materiali poveri: zucche, gusci legnosi, gomma di vecchi copertoni, legno, semi. Quasi sempre la musica era accompagnata dalla danza ed era collettiva, perchè importante elemento di coesione del gruppo.

Festival della Canzone e Musica Tradizionale, Maputo 1980

Uno degli strumenti più utilizzato era la mbila, presente in diverse versioni in tutta l’Africa. E’ una sorta di xilofono le cui casse di risonanza sono gusci legnosi, zucche o anche bidoni a seconda della grandezza dello strumento e del suono che deve riprodurre.

Festival della Canzone e Musica Tradizionale, Maputo 1980

 L’intervento più coinvolgente ed applaudito fu però quello di una giovane Miriam Makeba, già famosa anche in America ed Europa, che cantò molti dei suoi successi. Memorabile fu il duetto in cui cantò la sua Pata Pata con il presidente della repubblica mozambicana Samora Machel!

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La cantante sudafricana fu costretta a lasciare la sua terra per il suo impegno contro il regime dell’aparthaid e  continuò sempre a battersi contro le discriminazioni razziali ed ogni tipo di sfruttamento, fino all’ultimo giorno della sua vita, che si concluse qui in Italia, a Castel Volturno, durante un concerto contro la camorra, che aveva ucciso sei africani durante la rivolta contro lo sfruttamento della manodopera straniera, concerto che lei dedicò anche a Roberto Saviano. Fu colpita da infarto, ma nonostante i forti dolori al petto volle continuare ugualmente a cantare. Saviano parlò di lei nello speciale di Rai 3 “Dall’inferno alla bellezza” in cui denunciò il ritardo con cui arrivarono i soccorsi.

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