scale di Roma

La città eterna è fatta a scale. Nacque sui fatidici sette colli generati dalle stratificazioni di materiale vulcanico eruttato dal complesso dei colli Albani a partire da circa 600 mila anni fa. La piattaforma così formata fu erosa dai corsi d’acqua e generò quel paesaggio fatto da numerosi rilievi che ospitò le prime popolazioni di pastori.

Per superare le salite e discese in epoche diverse vennero costruite innumerevoli scale che ancora oggi percorriamo per raggiungere luoghi famosi.

Il visitatore che vuole accedere al Palatino partendo dal Foro Romano sale la scala rinascimentale abbellita da cripte, fontane e statue. Recentemente restaurata dopo secoli di abbandono e rovina se ne può apprezzare tutta l’eleganza e armonia.

Non lontano da Piazza Bocca della Verità, sul lungotevere Aventino questa scala permette di salire al Giardino degli Aranci sull’ Aventino. altro colle leggendario, legato alla vicenda della fondazione di Roma.

Anche al Quirinale, il più alto dei sette colli, sale una scala che dà nome al vicolo in cui si trova: via dello Scalone. Parte dal vicolo Scanderbeg e sale verso il Palazzo del Quirinale, fino al Portone della Panetteria fatto costruire agli inizi del 1600 per collegare il palazzo alle zone basse della città.

Una delle scalinate più famose di Roma è però quella di Trinità dei Monti, così chiamata dalla chiesa che la domina dall’alto del colle del Pincio. Fu fatta costruire dal papa Innocenzo XIII fra il 1723 e il 1726 per superare il dislivello fra la piazza e la chiesa. La scala è in stile barocco e costituisce una armoniosa e grandiosa scenografia, una delle più caratteristiche di Roma.

Altrettanto famosa è la cordonata che sale al Campidoglio, altro colle della prima Roma, divenuto poi rocca e sede di santuari, fra cui quello più imponente fu quello di Giove Capitolino eretto dai re Tarquini. Il colle era distinto in due sommità, il Capitolium propriamente detto e l’arx dove un tempo sorgeva il tempio di Giunone Moneta e attualmente c’è la chiesa di S. Maria in Aracoeli.

Anche in antico due scalinate lo collegavano al piano: la scala Gemoniae che saliva dal Foro all’arce e Centum Gradum dal Campo Marzio al Capitolium per la ripida rupe Tarpea. La cordonata attuale fu disegnata da Michelangelo, poi modificata da Giacomo della Porta.

Accanto alla cordonata del Campidoglio un’altra imponente scalinata di 124 gradini raggiunge la chiesa di S.Maria in Aracoeli.

Fu costruita con marmi provenienti da antichi monumenti a spese del popolo romano, nel periodo in cui i papi erano ad Avignone. Era il 1348 ed era appena finita la peste che provocò tanti morti in Italia e che fu ricordata da Boccaccio nel Decamerone. La scalinata fu il ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dall’epidemia.

Le ragazze che volevano trovare marito salivano la scala in ginocchio, come le donne che non riuscivano ad avere figli e le mamme senza latte per chiedere la grazia della Madonna.Anche in periferia non mancano le scale che superano dislivelli a volte notevoli. Questa è la scala dei 99 gradini che collega viale Tirreno, lungo la piana alluvionale dell’Aniene, alla zona di Montesacro. La scala deve superare uno zoccolo verticale di depositi vulcanici, questa volta eruttati dai Monti Sabatini a nord di Roma.

La scala è tenuta costantemente pulita da associazioni di volontari. Un artista vi ha poi dipinto brani di Giacomo Leopardi.

Goethe e gli alberi di Giuda

Stamane ho avuto la sorpresa d’uno spettacolo singolare: vedevo in lontananza degli alti alberi slanciati rivestiti del più bel violetto. Osservando meglio, riconobbi l’albero, noto nelle nostre serre sotto il nome di albero di Giuda, il cercis siliquastrum dei botanici, che produce i suoi fiori a figura di farfalle direttamente dal tronco.

I rami slanciati che avevo osservato da prima, erano stati rimondati durante l’inverno e così i bei fiori dalla cinta carica uscivano a migliaia dalla corteccia.”

(J. Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, traduzione E. Zaniboni, ed. Intra Moenia)

Cecilia Metella come base geodetica

Il Mausoleo di Cecilia Metella sorge nel punto più alto dell’Appia Antica, al termine della colata lavica generata dal Vulcano Laziale fra 300 mila e 200 mila anni fa e si impone per la mole e la grande visibilità. Per queste sue caratteristiche nel 1751 fu scelto come estremo della base trigonometrica per la costruzione della cartografia del territorio dagli scienziati gesuiti Cristopher Maire e Ruder Josif Boscovich. L’altro estremo fu posto a Frattocchie.

La base geodetica è il lato al quale si riferisce la triangolazione geodetica di una regione, cioè la misura di angoli fra punti definiti del territorio. Con la trigonometria è possibile calcolare poi la lunghezza degli altri lati tenendo conto anche della curvatura terrestre.

Nel 1809, durante la dominazione napoleonica, gli ingegneri francesi controllarono e modificarono in parte le misurazioni effettuate dai due gesuiti e apposero sulla facciata del munumento una lapide che testimoniava le loro misurazioni e ricordava quelle dei due gesuiti.

Dopo il crollo dell’impero napoleonico, la targa fu però fatta rimuovere dalle autorità pontificie, ma non venne distrutta perché celebrava le imprese scientifiche di due eminenti studiosi gesuiti. Rappresenta l’unica lapide napoleonica conservata a Roma.

Nel 2021, anno del bicentenario della morte di Napoleone Buonaparte, il Parco Archeologico dell’Appia Antica, in collaborazione con i Musei Vaticani, ha ricollocato sulla facciata del monumento la copia dell’iscrizione del 1809.

Ulteriori misurazioni furono eseguite fra il 1854 e il 1855 da Padre Angelo Secchi, fisico di fama mondiale, fondatore dell’astrofisica e geodeta, direttore del Nuovo Osservatorio del Collegio Romano, carica che conserverà per i suoi meriti anche sotto il Regno d’Italia.

Padre Secchi collocò il punto trigonometrico sull’Appia proprio di fronte al monumento, lo demarcò con grosse pietre seppellite in profondità perché non andassero perse. Anche il pinnacolo presente sulla sommità del monumento faceva parte del sistema di puntamento strumentale di A. Secchi.

I punti trigonometrici nonostante gli accorgimenti di Secchi andarono persi, quello di Cecilia Metella fu ritrovato casualmente durante una campagna di scavi archeologici nel 1999 ed è oggi identificabile da un tombino che si apre sulla strada di fronte al Mausoleo di Cecilia Metella.

All’altezza del tombino, sul lato opposto della strada una targa di marmo ricorda il ritrovamento.

Le misurazioni di Secchi furono un punto di riferimento per il disegno della cartografia dello Stato Pontificio e, insieme ad altre rilevazioni eseguite in tutta la penisola italiana e in altri Stati europei, permisero di misurare la forma della Terra e di teorizzarne la forma di ellissoide di rotazione schiacciato ai poli.

Partendo dalle misurazioni effettuate da Maire e Boskovich, Secchi definì anche il Meridiano di Roma o di Monte Mario, detto anche Primo Meridiano d’Italia.

antichi oggetti romani di uso quotidiano

Nel Museo Archeologico Nazionale di Lucus Feroniae di cui ho parlato qui molte vetrine espongono gli oggetti ritrovati vicino al tempio della dea Feronia, lasciati dai fedeli come ex voto. Sono numerosissimi e molto differenziati, quasi tutti legati alla vita quotidiana. Ecco allora i recipienti per cibi e bevande nelle forme più diverse: pentole, tegami, padelle, testi in terracotta, anfore per l’olio, il vino o il garum, la salsa di pesce ricercatissima sulle mense romane. E poi le posate in ferro e in argento o bronzo. Molti di questi recipienti contenevano in origine piccole quantità di cereali o di vino offerti alla dea.

Fra questi oggetti singolari sono la paletta per la cenere e il mortaio in marmo con il pestello a forma di dito.

Altri oggetti sono destinati alla cosmesi; pinzette per la depilazione, spatole per impastare e applicare maschere di bellezza e piccoli contenitori per unguenti e profumi.

Legati all’attività femminile della filatura e tessitura sono i pesi da telaio, i rocchetti, le fuseruole in terracotta spesso dedicate dalle donne alla divinità.

Le campanelle in bronzo erano un altro oggetto comune, appese sugli usci delle case servivano ad annunciare l’arrivo di un visitatore, ma anche ad allontanare il malocchio.

Comunissime erano le lucerne, a volte con disegni in rilievo.

Altri erano oggetti per giocare: dadi in osso, pedine in pasta vitrea o in osso per giochi simili agli scacchi o alla dama.

Infine un oggetto singolare: un vaso da talea di ceramica.

Molti altri oggetti offerti alla dea ci parlano della vita quotidiana dei nostri antenati: gioielli a volte di eccezionale fattura,

monete, statuine in bronzo o terracotta raffiguranti animali, parti anatomiche o testine dell’offerente.

un tempio di Iside a Roma

A Roma è esistito per molti secoli un tempio conosciuto come Iseo Campense dedicato alla dea egizia Iside e al suo consorte Serapide. Si trovava a Campo Marzio, nella zona in cui ora è la chiesa di Santo Stefano del Cacco, fra via del Plebiscito e piazza del Collegio Romano, .

Fu costruito nel I secolo a. C. e conobbe alterne vicende: fu più volte soppesso ed altrettante reintrodotto, l’ultima volta da Domiziano. Il culto rimase fino almeno al V secolo.

Doveva essere un tempio imponente, con un ingresso decorato da obelischi di granito rosso o rosa.

Dopo il suo abbandono e la sua distruzione, le decorazioni, le statue, gli obelischi, quasi tutti di provenienza egizia, furono impiegati per nuove costruzioni, come del resto successe a tanti altri monumenti, in questo caso erano veramente tanti e si trovano in varie collocazioni al centro di Roma.

Singolare è la storia della grossa pigna di bronzo ora ai Musei Vaticani che dà il nome all’intero rione!

Alcuni sono rimasti nei pressi ed hanno storie curiose, è il caso del colossale busto femminile di marmo che si trova in un angolo di piazza San Marco, accanto all’omonima chiesa. Si tratta probabilmente della statua della dea Iside o di una sua sacerdotessa, qui collocata intorno al 1500.

Madonna Lucrezia
Madama Lucrezia

I romani la ritennero il ritratto di Lucrezia d’Alagno, la bellissima amante del re Alfonso d’Aragona, amica di molti uomini potenti della sua epoca. Con il nome di Madama Lucrezia divenne una delle numerose statue parlanti di Roma, l’unica femminile. Su di esse comparivano versi di satira nei confronti dei potenti. Io ne ho parlato qui.

Probabilmente alla stessa statua appartiene il piede che si può ancora vedere nel vicino vicolo del Pie’ di Marmo. Il frammento ha un calzare tipico delle sacerdotesse di Iside.

Anche la Chiesa di Santo Stefano del Cacco prende il nome da una statua del dio egizio Thot nelle sembianze di un babbuino, qui trovata e chiamata dal popolino “macacco” (macaco) , da cui “cacco”. La statua è ora ai Musei Vaticani.

Due colossali statue raffiguranti il Tevere e il Nilo sono attualmente al Louvre e ai Musei Vaticani e due statue in basalto raffiguranti leoni furono collocate da Michelangelo alla base della cordonata che porta a Piazza del Campidoglio.

Gli obelischi che ornavano l’ingresso del tempio sono stati collocati in varie aree della città in epoche diverse. Uno è quello che il pulcino della Minerva, in realtà un elefante, porta in groppa; è un obelisco di provenienza egiziana del secolo VI a. C.

Un altro è quello collocato a Piazza della Rotonda, davanti al Pantheon, uno è in via delle Terme di Diocleziano, altri sono a Piazza Navona e perfino al Giardino dei Boboli a Firenze!.

Un’altra statua probabilmente proveniente dall’Iseo è quella della “gatta”, collocata su un cornicione di Palazzo Grazioli, nella via che ha preso nome proprio dalla statua: Via della Gatta. Questi animali erano sacri nell’antico Egitto e la dea con testa di gatta Bastet era protettrice della maternità.

Il felino sembra guardare in giù e una delle tante leggende narra che sorveglierebbe un tesoro nascosto proprio dove cade il suo sguardo.

Una seconda leggenda narra invece che la statua fu lì collocata in onore di un gatto che con i suoi miagolìi avvertì gli adulti del terribile pericolo che correva un bambino che passeggiava sul cornicione del palazzo.

Una curiosità: il termine “gatta” anticamente in molte zone d’Italia si riferiva all’animale in questione a prescindere dal suo sesso, maschio o femmina che fosse.

Roma e l’immondezza

Secolare problema quello dell’immondezza a Roma! Un tempo, in assenza di un servizio di nettezza urbana, l’accumulo dei rifiuti nelle strette strade e nei vicoli del centro di Roma, doveva produrre una sporcizia indescrivibile, con conseguente odore nauseabondo che raggiungeva democraticamente povere casupole e ricchi palazzi.

Se si considera poi che le case non avevano bagni poteva accadere che passando di buon mattino in un vicolo si venisse investiti dal contenuto di un vaso da notte (detto a Roma zi’ Peppe) svuotato dopo la notte.

Nel 1700 i papi fecero scolpire e fissare ai muri, in molti punti della città, targhe marmoree per vietare “di fare mondezzaro”.

Molte di queste targhe sono rimaste e si possono incontrare in varie vie del centro, il tenore è sempre lo stesso, alcune sono più minuziose nel descrivere i tipi di immondezza, altre elencano le pene, pecuniarie e corporali.

Questa si trova ai lati della scalinata di Trinità dei Monti, non più quindi nel luogo originario (forse via dell’Olmata?) Un tempo questa specie di alberi era stata scelta dai papi per ornare le strade.

Ai giorni nostri esiste un sistema di raccolta dei rifiuti pubblico, pagato dai cittadini, ma Roma continua sd essere una città sporca, certo non ai livelli dei secoli passati, ma abbastanza perché molti romani si sentano arrabbiati con un sistema che non funziona, disperando ormai che si riesca a trovare una soluzione.

Per fortuna quella che non manca mai è l’ironia, così che in un vicolo bello e sporco ci si può imbattere in questo manifesto.

La scritta sotto dice: ” Santa Madonna della Molletta salvaci dalla puzza de la monnezza maledetta!”

un’antica divinità della natura

Denario d’argento con la raffigurazione della dea Feronia

Feronia era un’antica divinità della natura, dei boschi e delle sorgenti venerata dalle popolazioni del territorio poco a nord di Roma, prima che Roma fosse fondata. I Sabini, gli Etruschi, i Latini, i Falisci e i Capenati la veneravano in una radura di un bosco sacro presso Capena: Lucus Feroniae.

Lucus era il termine che indicava la radura nel bosco, un luogo in cui arrivava luce in mezzo al fitto degli alberi e all’oscurità e nel quale fin dai tempi più antichi le popolazioni del territorio si radunavano per eseguire i riti sacri. Solo successivamente si costruirono i primi templi.

La dea Feronia era garante della concordia fra i popoli confinanti e ogni anno nel lucus si svolgeva un’assemblea religiosa e un importante mercato. Gli scavi archeologici hanno ritrovato molti oggetti votivi, fra i quali le teste di terracotta rappresentanti il donatore e parti anatomiche.

Il tempio e l’area continuò ad essere molto frequentato anche in epoca romana. Nel 211 a. C. il tempio fu saccheggiato dalle truppe di Annibale. “Quindi si diresse al bosco sacro di Feronia, tempio che era allora colmo di ricchezze. I Capenati e gli altri popoli che abitavano nell’area circostante portando colà le primizie dei raccolti ed altri doni secondo le possibilità, lo avevano arricchito di molto oro e argento, di tutti quei doni fu allora spogliato il tempio”. (Tito Livio, Ab urbe condita XXVI, 11, 8-10)

Il santuario continuò ad essere frequentato nei secoli successivi, gli scavi hanno riportato alla luce vasi, statuine, monete, gioielli, oggetti d’uso.

Dopo il sacco di Annibale l’area viene risistemata con la ricostruzione del tempio, con abitazioni e un foro con colonne.

Il culto di Feronia scomparve nel I secolo a. C. probabilmente perché i sacerdoti e i cittadini della zona avevano appoggiato gli insorti italici nella guerra contro Roma (91-88 a.C.). Il tempio e gli edifici furono oggetto di spoliazione per la costruzione della colonia Julia Felix Lucus Feroniae voluta da Silla dopo la vittoria sugli insorti italici.

Il nuovo Foro fu costruito all’interno dell’area sacra e un tempio dedicato a una nuova divinità, la Salus, sostituì il culto di Feronia.

Gli scavi in questa località iniziarono nel 1952 e proseguono nei decenni successivi con numerose interruzioni. Nel 1977 viene costruito il Museo Archeologico Nazionale di Lucus Feroniae che custodisce i materiali provenienti dagli scavi con interessanti ed esaurienti pannelli illustrativi che descrivono anche la vita quotidiana degli antichi romani attraverso gli oggetti rinvenuti.

Il museo e gli scavi si trovano nel territorio di Capena, lungo la via Tiberina, la visita del museo e degli scavi dell’antica città sono gratuiti, per le informazioni si può consultare questo sito.

fiori sulle antiche rovine

Le rovine antiche sono un luogo ideale per la crescita di fiori spontanei, lontano da coltivazioni e diserbanti, anche lo sfalcio non è così solerte! Così in queste prime giornate autunnali visitando le rovine ci si può imbattere in un vero orto botanico!

Fra le rovine dell’antica colonia di Julia Felix Lucus Feroniae di cui parlerò in un prossimo post crescono bellissimi fiori come l’Altea della foto in apertura.

I prati abbondano delle fioriture del finocchio selvatico e della rughetta selvatica.

Ruchetta selvatica

La nepitella (a Roma conosciuta come mentuccia) riempie l’aria tiepida con il suo profumo e riesce a crescere anche nelle fessure degli antichi muri.

Così come le bocche di leone che hanno bisogno di ben poco terriccio per fiorire!

Non è la prima volta che trovo bellissimi fiori sulle rovine, in Marocco la stessa antica città romana di Volubilis aveva preso il nome dal fiore spontaneo che vi cresceva abbondante: il convolvolo.

Sul tempio di Giove Anxur a Terracina crescono violacciocche e ferule che danno un tocco di colore agli imponenti resti.

Gli esempi possono essere ancora moltissimi, le mie visite archeologiche hanno quasi sempre un risvolto botanico! Mi fermo però qui.

strade romane e giochi di palla

Fra i tanti nomi curiosi delle vie e piazze del centro di Roma di cui ho scritto qui, qui e qui, ci sono anche i nomi di giochi di palla che si praticavano in genere in piazze o piazzette, le vie del centro infatti non avevano grandi spazi liberi per poter giocare se si toglievano le grandi piazze di rappresentanza non lasciate certo ai giochi del popolino!

Via della Pallacorda ricorda il campo allestito nel cortile di uno dei palazzi della via all’inizio del ‘600 per il gioco della pallacorda, una sorta di tennis.

Durante una partita di pallacorda giocata da due squadre di quattro giocatori ciascuna avvenne una feroce rissa in cui fu coinvolto anche Michelangelo Merisi, il Caravaggio. Uno dei giocatori della squadra avversaria a quella in cui giocava l’artista morì in seguito alle ferite riportate. Il Caravaggio fu condannato a morte in contumacia perché era riuscito a scappare da Roma.

Via della Pilotta e Piazza della Pilotta prendono il nome dalla romanizzazzione del nome spagnolo del gioco della palla (pelota).

La via è molto suggestiva, fra il Palazzo Colonna e la villa sulla destra, che si estende sulle pendici del Quirinale. Quattro grandi archi collegano il palazzo alla villa. La via sbocca nella tranquilla piazza della Pilotta, è qui che fin dal ‘500 si giocava alla palla.

Piazza della Pilotta

Infine via del Pallaro ricorda un personaggio che teneva qui una sorta di gioco del lotto, il pallaro raccoglieva le puntate e da 90 palle estraeva i cinque numeri vincenti!

la casina delle civette a villa Torlonia

La Casina delle Civette è una curiosa villetta che si può visitare all’interno della Villa Torlonia, uno dei tanti parchi pubblici romani che furono un tempo splendide dimore signorili. Io ne ho parlato qui.

La costruzione fu voluta in queste forme dall’ultimo erede dei Torlonia, Giovanni jr. che la ereditò nel 1908 e la fece ristrutturare secondo i canoni stilistici neomedioevali allora di moda e ne fece la sua dimora fino alla morte avvenuta nel 1939.

La villa, e con essa la casina, dopo la morte del principe ebbe una vita travagliata, fu dimora di Mussolini fino al 1943, dal 1944 fu occupata da un contingente militare americano che provocò molti danni al complesso e in particolare alla casina della quale andarono perduti molti arredi e decorazioni.

La villa fu espropriata nel 1962 per farne un parco pubblico che però sarà aperto solo nel 1978, molti dei suoi edifici, compresa la Casina delle Civette erano in grave stato di degrado.

Tutte le vetrate attuali sono frutto del restauro avvenuto nel 1997 su fedele riproduzione dei bozzetti originali, poiché la villetta era in rovina e le vetrate erano andate in frantumi ed erano state gravemente danneggiate da un incendio.

La Casina delle Civette deve la sua fama alle ricche decorazioni interne, in particolare alle maioliche e alle vetrate per le quali lavorò Cesare Picchiarini, il massimo artigiano del vetro di Roma all’inizio del ‘900. I cartoni delle vetrate erano dei più celebri artisti del periodo: Paolo Paschetto, Duilio Cambellotti, Umberto Bottazzi.

Sono proprio le figure delle civette, riprodotte su alcune vetrate e raffigurate anche su una maiolica all’esterno dell’edificio, a dare nome alla casina. Questi uccelli rispecchiavano il carattere e lo stile di vita del principe, amante della vita ritirata, ma anche della sapienza, della quale questo uccello è un po’ il simbolo, come attributo tradizionale della dea Atena.

Insieme al motivo delle civette altri uccelli più appariscenti colorano le vetrate della villetta, pavoni, cigni, rondini, allodole.

Alle vetrate restaurate della casina ne sono state aggiunte altre degli stessi autori, acquistate dal Comune di Roma in modo da creare un vero e proprio museo della vetrata storica.

La Casina delle Civette fa parte dei Musei del Comune di Roma, qui si possono avere informazioni sulla sua visita, insieme alla visita degli altri musei della villa.

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