un minuscolo borgo della Tuscia

Chia, frazione di Soriano al Cimino (Vt) è un piccolo borgo medioevale arroccato come tanti paesi della Tuscia su uno sperone tufaceo, prodotto dalle eruzioni del Cimino e eroso dai corsi d’acqua che hanno creato quel paesaggio tanto tipico del viterbese.

Fu molto cara a Pierpaolo Pasolini che l’aveva conosciuta quando vi girò “Il Vangelo secondo Matteo”, se ne innamorò e fece restaurare un antico castello con torre. Qui passò i suoi ultimi anni.

Il paesino risale all’anno 1100 ed è ormai parzialmente in rovina, alcuni vecchi edifici nel centro storico sono crollati e recintati, così come la parrocchiale.

Altri edifici sono però stati restaurati e ai pochi residenti si aggiungono quelli che hanno costruito villette moderne ai bordi del paese per godere del bel paesaggio di forre e boschi.

Fra le case pericolanti fa piacere trovare un segno di vita, la tendina ricamata e i fiori alla finestra danno un segno di allegria e di cura.

il Nera, un fiume umbro

Il fiume Nera, si origina nel cuore del Parco Nazionale dei Monti Sibillini circa a 900 m s.l.m. a Vallinfante, una frazione di Castel d’Angelo sul Nera (provincia di Macerata), paese quasi completamente distrutto dal sisma del 2016.

La sorgente che dà origine al Nera ha alle spalle la catena dei Monti Sibillini costituita da rocce calcaree molto fessurate, che assorbono le acque provenienti dalle piogge e dallo scioglimento delle nevi e le fanno risorgere poco a valle, per questo la portata della sorgente è già notevole: 100 litri di acqua al secondo.

Proseguendo il suo percoso verso valle il torrente si ingrossa subito ricevendo le acque provenienti da altre sorgenti e da torrenti alimentati dalle acque delle montagne alle spalle. Dopo circa 20 chilometri entra in Umbria che attraverserà fino quasi alla confluenza con il Tevere, al confine fra Umbria e Lazio, presso Orte (Vt). In tutto un percorso di poco più di 100 chilometri che attraversa la suggestiva Valnerina, ricca di gole e borghi medioevali come Vallo di Nera, Sant’Anatolia di Narco, Ferentillo.

I romani lo chiamavano Nar nome che deriva da una antica radice prelatina nar o ner che probabilmente significa acqua. Virgilio lo cita con questo nome nel libro VII dell’Eneide.

Riceve numerosi e copiosi affluenti che lo rendono sempre ricco di acque. La confluenza con il fiume Velino è spettacolare perché quest’ultimo compie un salto di 165 m prima di confluire nel Nera sottostante formando le bellissime Cascate delle Marmore.

Pochi chilometri più a valle attraversa Terni che deriva il suo nome antico, Interamna Nahars (fra i fiumi), proprio dall’essere alla confluenza fra il Nera e il torrente Serra.

Più a valle scorre ai piedi della città di Narni, il cui nome è anch’esso derivato da Nar. Si può seguire il corso del fiume percorrendo a piedi la vecchia ferrovia abbandonata. Si passa accanto all’arcata residua del Ponte di Augusto che permetteva alla via Flaminia di scavalcare il fiume.

Ormai in pianura il fiume forma il piccolo lago artificiale di San Liberato che ospita una ricca fauna stanziale e migratoria.

Il fiume si avvia verso il confine fra Umbria e Lazio dove, nel comune di Orte (Vt), avviene la confluenza con il Tevere di cui è il più importante affluente tanto che il detto recita; “Il Tevere non sarebbe Tevere se il Nera non gli desse da bevere”.

la Valle del Diavolo

Odore di zolfo, vapori che escono dal terreno, sibili, nebbia, colorazioni del terreno, la valle dove attualmente c’è il paese di Larderello, una frazione di Pomarance (Pi), sembrava per gli antichi l’anticamera del regno degli Inferi.

Molte testimonianze ci sono arrivate fin dal III secolo a. C. quando in questi luoghi vivevano gli Etruschi. In seguito ne hanno parlato scrittori romani come Lucrezio Caro, che parla di “monti che fumano”, Tibullo, Strabone. Anche Dante ne prende ispirazione per le sue descrizioni infernali.

I vapori che escono dal terreno vennero sfruttati fin dal tempo degli Etruschi per farne terme calde medicamentose, ma anche per ricavarne sali minerali che si depositavano nei lagoni, soprattutto sali di boro, usati per scopi farmaceutici e per produrre fissanti per colori e smalti.

L’uso delle acque termali continuò in epoca romana; nel medioevo venne ripresa l’estrazione dei sali minerali depositati da queste emanazioni: zolfo, vetriolo, allume, boro, tanto che queste terre vennero contese fra le repubbliche toscane, che motivi di contesa ne avevano in quantità. In particolare era importante economicamente l’estrazione del boro che prima veniva importato dal Tibet.

Fu nel 1827 che F.J. de Larderel, industriale toscano di origine francese, perfezionò il metodo di estrazione del boro dai cosiddetti “lagoni” e per la prima volta per far evaporare l’acqua utilizzò l’energia che proveniva dal terreno.

Nel luglio del 1904 il principe Ginori Conti, genero di Larderel, attuò un esperimento rivoluzionario: con un motore azionato dal vapore e collegato a una piccola dinamo riuscì a far accendere cinque lampadine. Per la prima volta al mondo si ottenne energia elettrica dall’energia prodotta dal vapore geotermico.

Nel 1905 il villaggio di Larderello, sorto per ospitare gli operari della fabbrica di estrazione del boro e così chiamato dal nome dell’imprenditore, fu il primo paese al mondo ad essere illuminato da lampadine elettriche.

Nei decenni successivi venne costruita e via via potenziata la centrale elettrica alimentata a vapore che consentì di alimentare con la corrente elettrica anche Volterra e Pomarance. Nel 1939 venne aggiunta una seconda centrale geoelettrica che aumentò ancora la potenza installata, ma la devastazione della guerra distrusse gli impianti che verranno ripristinati solo nel 1949; già nel 1950 si aggiunse una terza centrale.

Oggi gli impianti geotermoelettrici italiani, tutti ubicati in Toscana, producono più di 5 miliardi di kWh l’anno, con i quali ci poniamo all’avanguardia nel mondo per lo sfruttamento di questo tipo di energia.

A Larderello è possibile visitare il Museo della Geotermia con l’interessante storia della geotermia italiana e una possibile visita ad uno dei soffioni.

Non solo la Valle dell’Inferno, ma una zona molto ampia è interessata da questi fenomeni geologici causati da più fattori concomitanti che raramente si riproducono insieme:

la presenza a circa 7-8 chilometri di profondità di un corpo magmatico in raffreddamento,

la presenza di rocce che fanno da serbatoio all’acqua piovana, che viene trasformata in vapore dal calore,

la presenza di faglie nel terreno che hanno provocato fessure sub verticali da cui fuoriesce il vapore.

Nel comune di Monterotondo Marittimo (Gr) è stato istituito un interessantissimo e suggestivo Parco delle Biancane, nome derivato dal fenomeno dello sbiancamento del terreno causato dall’aggressività di alcuni componenti delle esalazioni del vapore, soprattutto con la formazione di gesso.

La passeggiata su e giù per il percorso delle biancane, fra esalazioni si vapori e paesaggio lunare è estremamente suggestiva. Intorno alle fessure da cui fuoriesce il vapore si formano depositi di minerali, fra cui il più evidente è lo zolfo dall’evidente colore giallo.

Anche la vegetazione è particolare perché il riscaldamento naturale dell’aria e del terreno e l’acidità di quest’ultimo consente la crescita di specie botaniche diverse da quelle dei territori vicini, come la quercia da sughero e l’erica, che crescono bene in terreni acidi e in climi miti.

La zona da visitare è ampia, oltre ai fenomeni geotermici vale la pena raggiungere gli antichi borghi medioevali e i castelli, eretti su colline da cui si può ammirare un bel panorama con oliveti, cipressi, boschi di lecci, e sullo sfondo i vapori che escono dalle torri di raffreddamento delle centrali geotermiche.

un’antica divinità della natura

Denario d’argento con la raffigurazione della dea Feronia

Feronia era un’antica divinità della natura, dei boschi e delle sorgenti venerata dalle popolazioni del territorio poco a nord di Roma, prima che Roma fosse fondata. I Sabini, gli Etruschi, i Latini, i Falisci e i Capenati la veneravano in una radura di un bosco sacro presso Capena: Lucus Feroniae.

Lucus era il termine che indicava la radura nel bosco, un luogo in cui arrivava luce in mezzo al fitto degli alberi e all’oscurità e nel quale fin dai tempi più antichi le popolazioni del territorio si radunavano per eseguire i riti sacri. Solo successivamente si costruirono i primi templi.

La dea Feronia era garante della concordia fra i popoli confinanti e ogni anno nel lucus si svolgeva un’assemblea religiosa e un importante mercato. Gli scavi archeologici hanno ritrovato molti oggetti votivi, fra i quali le teste di terracotta rappresentanti il donatore e parti anatomiche.

Il tempio e l’area continuò ad essere molto frequentato anche in epoca romana. Nel 211 a. C. il tempio fu saccheggiato dalle truppe di Annibale. “Quindi si diresse al bosco sacro di Feronia, tempio che era allora colmo di ricchezze. I Capenati e gli altri popoli che abitavano nell’area circostante portando colà le primizie dei raccolti ed altri doni secondo le possibilità, lo avevano arricchito di molto oro e argento, di tutti quei doni fu allora spogliato il tempio”. (Tito Livio, Ab urbe condita XXVI, 11, 8-10)

Il santuario continuò ad essere frequentato nei secoli successivi, gli scavi hanno riportato alla luce vasi, statuine, monete, gioielli, oggetti d’uso.

Dopo il sacco di Annibale l’area viene risistemata con la ricostruzione del tempio, con abitazioni e un foro con colonne.

Il culto di Feronia scomparve nel I secolo a. C. probabilmente perché i sacerdoti e i cittadini della zona avevano appoggiato gli insorti italici nella guerra contro Roma (91-88 a.C.). Il tempio e gli edifici furono oggetto di spoliazione per la costruzione della colonia Julia Felix Lucus Feroniae voluta da Silla dopo la vittoria sugli insorti italici.

Il nuovo Foro fu costruito all’interno dell’area sacra e un tempio dedicato a una nuova divinità, la Salus, sostituì il culto di Feronia.

Gli scavi in questa località iniziarono nel 1952 e proseguono nei decenni successivi con numerose interruzioni. Nel 1977 viene costruito il Museo Archeologico Nazionale di Lucus Feroniae che custodisce i materiali provenienti dagli scavi con interessanti ed esaurienti pannelli illustrativi che descrivono anche la vita quotidiana degli antichi romani attraverso gli oggetti rinvenuti.

Il museo e gli scavi si trovano nel territorio di Capena, lungo la via Tiberina, la visita del museo e degli scavi dell’antica città sono gratuiti, per le informazioni si può consultare questo sito.

San Michele Arcangelo e le grotte

La Montagna dei Fiori è un gruppo montuoso del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, fra le sue pareti il fiume Salinello ha scavato un canyon fra i più notevoli dell’Appennino: è lungo più di 3 chilometri e le sue pareti sono quasi verticali ed in alcuni tratti così vicine da toccarsi quasi. L’ambiente è molto suggestivo e ricco di specie animali rare come l’aquila, il falco pellegrino e il lupo e di una vegetazione che risale al Terziario, prima delle ultime glaciazioni.

L’uomo ha frequentato questa gola fin dalla preistoria lasciando innumerevoli testimonianze delle sue attività e dei suoi culti. I ritrovamenti preistorici si concentrano soprattutto nelle grotte che si aprono nelle sue pareti verticali e che sono da sempre per gli esseri umani oltre che un riparo, un luogo sacro.

In particolare la Grotta di Sant’Angelo, la più grande delle numerose cavità che si aprono nel complesso montuoso, è stata per gli esseri umani un luogo di culto praticamente ininterrottamente dalla preistoria ai giorni nostri.

Le frequentazioni furono più sporadiche nel Paleolitico superiore, divennero maggiori nel Neolitico (4600-4200 a.C.) fino all’Età del Bronzo (II millennio a. C.) quando fu utilizzata come luogo di culto e sepoltura.

La frequentazione riprese nel Medioevo quando monaci eremiti vi si stabilirono e ricavarono celle negli ambienti più piccoli e perfino una cisterna. La sala più ampia della caverna fu adibita a chiesa dedicata al culto di San Michele Arcangelo, aveva due altari, quello superstiteè formato da una pesante lastra di roccia incisa a caratteri gotici, risale probabilmente all’XI secolo.

La grotta è proprietà della chiesa e vi si celebra ancora messa due volte all’anno, il 1° maggio e il 29 settembre per San Michele.

Il culto di San Michele Arcangelo è fortemente radicato nell’Italia centro-meridionale ed è spesso legato a grotte o luoghi impervi e rocciosi. Il santuario a lui dedicato sul Gargano divenne meta di pellegrinaggi provenienti anche da luoghi lontani e viene frequentato anche ai giorni d’oggi.

Il culto si diffuse anche in altre zone dell’Appennino grazie ai pastori transumanti e si sovrappose al preesistente culto di Ercole molto diffuso nella popolazione italica dedita alla pastorizia. Entrambi i protagonisti del culto sono guerrieri, uno armato di spada, l’altro di clava. Caratteristiche queste gradite ai pastori pronti a difendere le greggi dagli attacchi di fiere e predoni. Io ne ho parlato in questo articolo.

Il culto di San Michele si ritrova anche in altre grotte dell’Appennino centrale, sulla Majella, sui Monti Carseolani, a Liscia ed è stato praticato in maniera ininterrotta dal Medioevo.

Greccio, parrocchiale di San Michele Arcangelo

due Parchi centenari

Parco Nazionale del Gran Paradiso, Val di Cogne

Fra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo compiono cento anni i primi due parchi nazionali italiani: il Parco Nazionale del Gran Paradiso e il Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio, Molise.

Intorno al massiccio del Gran Paradiso, fra Valle d’Aosta e Piemonte, la famiglia Savoia aveva una residenza reale di caccia fin dal 1856. Nel 1919 Vittorio Emanuele III si dichiarò disposto a cederla allo Stato purché vi si creasse un parco nazionale. Il Parco fu istituito il 2 dicembre 1922.

L’articolo 1 del decreto legge di istituzione del parco sancisce che la finalità del parco “conservare la fauna e la flora e preservare le particolari formazioni geologiche, nonché la bellezza del paesaggio”.

Val Grisenche

In realtà i primi decenni del parco, che coincisero con l’affermazione del fascismo e poi la seconda guerra mondiale, furono molto difficili in particolare per la caccia ai grandi ungulati che riprese con il bracconaggio. Dopo la guerra erano rimasti solo circa 400 stambecchi. Il loro numero tornò lentamente a salire e questo animale minacciato divenne il simbolo del parco.

Parco del Gran Paradiso, Valsavarenche

Il Parco Nazionale d’Abruzzo, dal 2001 chiamato Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, perché il suo territorio si estende in queste regioni, ebbe origine da un’iniziativa della Commissione per i Parchi Nazionali che nell’ottobre del 1921 affittò dal Comune di Opi 500 ettari della Costa Camosciara in Val Fondillo per farne un’area protetta, ancora oggi questa zona è cuore del Parco, frequentatissima dai turisti.

Val Fondillo

Era proprio in questa zona che trovavano rifugio il camoscio d’Abruzzo, differente da quello delle Alpi, il lupo appenninico e l’orso marsicano, una sottospecie dell’orso diffuso sulle Alpi. Tutte specie un tempo a diffusione più ampia lungo l’Appennino, ma minacciate d’estinzione oltre che dalla caccia anche dalla crescente antropizzazione.

Nel settembre del 1922 una zona di 12 mila ettari divenne ufficialmente Parco Nazionale, il riconoscimento ufficiale da parte dello Stato italiano avvenne nel gennaio del 1923.

Il Parco tutela i grandi mammiferi endemici dell’Appennino, oltre a quelli già citati si aggiunse anche il cervo, un tempo presente fra queste montagne, ma estintosi per la caccia intensa, che fu reintrodotto nel 1971.

Per quel che riguarda la flora il Parco custodisce boschi di faggio pluricentenari che sono diventati Patrimonio Mondiale UNESCO e molte specie endemiche di fiori.

Un patrimonio naturale ricchissimo e insostituibile perché unico in Europa a causa della latitudine e delle specie endemiche che vi sono presenti.

il Parco di Veio

Il Parco Regionale di Veio si estende per quasi 15 mila ettari a nord si Roma, fra la via Cassia a la via Flaminia, per ampiezza è il 4° parco del Lazio.

Si conserva naturalisticamente abbastanza integro, un enorme lembo di campagna romana che costituisce uno dei tanti polmoni verdi che circondano la metropoli, in continuità con altri parchi, come quello dell’Insugherata, quello di Bracciano-Martignano e quello della valle del Treja.

Si estende su colline tufacee, prodotto delle eruzioni dei Vulcano Sabatino, sulle quali i corsi d’acqua hanno scavato nei millenni forre ricche di vegetazione.

Le antiche popolazioni italiche dell’età del bronzo abitavano quella che sarà l’Etruria meridionale, i loro villaggi occupavano le alture isolate con pendii ripidi, facilmente difendibili.

Verso il 1000 a. C. gli abitanti di questi villaggi si riunirono in comunità più grandi, sorsero così gli insediamenti “protourbani” di Orvieto, Vulci, Tarquinia, Cerveteri e la stessa Veio. Da questi insediamenti in seguito si svilupparono le città etrusche.

L’intensa attività archeologica portata avanti nell’area di Veio ha fatto ritrovare un gran numero di necropoli dell’età del ferro (IX-VIII secolo a. C.)

Dal VII secolo a. C. a Veio compaiono le prime case a pianta rettangolare costruite con mattoni crudi e furono costruiti i primi templi.

Veio raggiunse il suo massimo sviluppo fra la fine del VII secolo a. C. e l’inizio del VI, poi iniziarono i conflitti con Roma, città in espansione, ciò portò i veienti a costruire una cinta muraria intorno alla città, fatta di blocchi di tufo.

I conflitti con Roma si inasprirono con alterne vicende fino a che nel 396 a. C Roma non espugnò la vicina. Da allora in poi Veio perderà la sua indipendenza, ma il suo territorio continuerà a prosperare sotto coloni romani o veienti passati al nemico. La città possedeva un centro termale terapeutico con un vicino tempio forse dedicato a una divinità salutare come testimoniato dai ritrovamenti archeologici.

La città fu abitata per più di sedici secoli, fino al medioevo, poi rimarrà terreno agricolo, coltivato ancora ai giorni nostri.

Un luogo piacevole e interessante in cui fare facili percorsi a piedi nel verde a poche decine di chilometri da Roma. Lungo il sentiero si incontrano gli scavi dell’antica città, le tombe nel tufo, le forre ombreggiate da grandi alberi, all’inizio di uno dei percorsi è un vecchio mulino abbandonato.

il lago di Montepulciano

Il lago di Montepulciano è un residuo, insieme al lago di Chiusi, dell’estesa area paludosa che occupava gran parte della val di Chiana fino a che, dalla fine del ‘500 i Medici, poi dal ‘700 i Lorena ed infine il fascismo, non intervennero con radicali opere di bonifica che resero coltivabili quei terreni.

I Medici iniziarono le opere di bonifica ampliando e approfondendo l’emissario del lago: il Canale Maestro della Chiana che fa defluire le acque verso l’Arno.

Un altro canale lo collega al vicino lago di Chiusi.

Il lago, chiamato anche chiaro, è situato al confine fra Toscana e Umbria, fra la provincia di Siena e quella di Perugia, cui appartengono sponde opposte. Ha una superficie di circa 150 ettari e una profondità massima di 2,5 m. Oggi è una delle più importanti zone umide dell’Italia centrale, luogo di sosta e nidificazione per gli uccelli migratori che dall’Africa si dirigono verso il nord Europa, per questo è una riserva naturale, un SIC (Sito di Importanza Comunitaria) e una ZPS (Zona di Protezione Speciale).

La riserva ospita una fauna avicola ormai rara altrove, sono state censite quasi 200 specie di uccelli, molti rapaci come gheppio, lodolaio, poiana, nibbio bruno. Vi si trovano ben quattro specie di picchi, tre specie di rondini, l’usignolo, il rigogolo, i gruccioni.

La vegetazione ripariale offre luoghi di nidificazione per molti uccelli acquatici come gli anatidi, le folaghe, i cormorani, gli aironi.

Un tempo il lago era una risorsa che integrava il reddito da coltivazione: vi si praticava la caccia e la pesca e le cannucce erano utilizzate per fabbricare graticci per seccare la frutta, tetti per le capanne e lettiere per le stalle.

La riserva si estende per circa 450 ettari, oltre che il lago comprende i terreni circostanti, i canali e un bosco igrofilo, cioè con vegetazione amante dell’umidità.

Dispone di un centro visite con bar e piccolo museo, area da picnic, sentieri e capanni di osservazione degli uccelli. Si possono affittare binocoli per osservare meglio la fauna.

Un luogo piacevole e tranquillo in cui fare passeggiate in ogni stagione.

i canyons italiani e gli esseri umani

Ancora un post sui canyons dopo la mia rassegna sui più belli d’Italia. I canyons, le forre, le gole hanno sempre colpito l’immaginazione umana fra attrazione, stupore e timore.

Molte antiche popolazioni italiche hanno sfruttato le pareti scoscese di questi siti per necropoli, luoghi di culto o anche per abitazioni grazie alla posizione facilmente difendibile.

Le Cave dei Monti Iblei in Sicilia sono un esempio suggestivo di insediamento umano. Particolarmente significativa è la necropoli di Pantalica sito UNESCO. Si tratta di circa 5 mila grotte risalenti a un periodo fra il XI e l’ VIII secolo a.C.

Anche le gravine della provincia di Matera e di quella di Taranto hanno una particolare suggestione. Sono abitazioni e tombe ricavate dalle pareti calcaree dei canyons della zona. L’esempio più noto è quello dei Sassi di Matera, anch’essa inserita nei siti dell’UNESCO.

Matera non è l’unico sito di questo tipo nella zona: Castellaneta, Laterza, Gravina di Puglia, Ginosa, Massafra, Palagianello offrono altri esempi di abitazioni e luoghi di culto.

Nell’alto Lazio e nella Toscana meridionale il paesaggio etrusco offre altri esempi di gole, canyons e forre sfruttati da questo antico popolo per le  necropoli. Il substrato in questo caso è il tufo, roccia vulcanica derivata dalle scorie eruttate dai distretti vulcanici sabatini e vulsini. Il tufo è una roccia non particolarmente dura che si scava facilmente e questi nostri antenati ne hanno ricavato necropoli complesse con molte tombe monumentali che avevano colonne, fregi e sculture sempre di tufo. Necropoli di questo tipo si possono visitare con tranquille passeggiate a Blera, Barbarano, Calcata, Pitigliano, Norchia.

Blera

A volte i canyons furono utilizzati come vie di comunicazione, è il caso della galleria scavata dagli Umbri e dai Romani attraverso la quale passava e passa la via Flaminia: la Gola del Furlo.

Attraverso le Gole di Celano in Abruzzo si compiva ogni anno la transumanza.

A volte le profonde spaccature erano un ostacolo alla viabilità, si costruivano allora arditi ponti come quello sulle Gole del Quirino in Abruzzo o il Ponte dei Saraceni sulle gole laviche del Simeto presso Adrano.

Pochi anni fa purtroppo alcune persone che percorrevano le gole sono morte travolte da una piena improvvisa. Il diavolo non ne fu la causa, ma l’imprudenza umana. 

Alcuni canyons hanno ospitato, dalla preistoria ai giorni nostri, luoghi di culto. In Abruzzo le Gole del Fiastrone e quelle del Salinello nelle Montagne dei Fiori. Qui oltre a diversi santuari mariani, una grotta è dedicata a San Michele, l’arcangelo spesso associato alle grotte e alle pareti rocciose. Anticamente nella stessa grotta si venerava Ercole, il semidio invocato in difesa del bestiame.

 

 

i più bei canyon d’Italia

Canyon è una parola angloamericana derivata dallo spagnolo usata anche in Italia spesso come sinonimo di gola. In un territorio montuoso come il nostro non mancano le gole spettacolari che quando sono particolarmente paurose prendono il nome di orridi. Praticamente tutte le regioni possono vantare di possedere gole che hanno assunto un valore turistico apprezzabile e sono state valorizzate con percorsi attrezzati.

La Valle d’Aosta è ricca di acque correnti che scendono impetuose dalle sue cime e che hanno scavato numerose gole. Molto belle sono quelle della Grand’Eyvia percorribili in automobile. La più famosa è però il Gouffre de Buiseraille poco a valle di Cervinia.

Anche il Piemonte ha un gran numero di gole, in particolare quella delle Fascette con pareti alte fino a seicento metri e percorribile anche in auto.

In Val di Susa la Gorgia di Mondrone ha una bella cascata di 65 metri, gli orridi di Foresto e di Chianocco sono anche riserve naturali. Famosi sono gli Orridi di Uriezzo. In Val Grande le gole sono particolarmente selvagge.

In Lombardia significative sono l’Orrido di Bellano, l’Orrido dell’Enna scavato nei calcari dolomitici e la Via Mala che è stata definita come il più grande canyon delle Alpi italiane.

In Trentino Alto Adige significative sono la Forra del Varone presso il Lago di Garda e la Gola di Butterloch di un bel colore rossastro.

In Veneto l’Orrido di Travenanzes è una magnifica e strettissima fenditura di cento metri di profondità e i Serrai di Sottoguda alle falde della Marmolada che nei punti più stretti sono larghi solo 2 metri.

In Friuli il canyon del Rosandra  presso Trieste ha una bella cascata e vedute molto suggestive.

Anche l’Appennino è molto ricco di gole suggestive e bellissime soprattutto in Abruzzo dove le Gole di Celano che si sviluppano per 4 chilometri sono fra le più belle d’Italia con pareti di 250 metri e strettissimi passaggi. Sulla Majella spettacolari sono è il Vallone di Santo Spirito considerato il più profondo d’Italia con pareti che raggiungono i 900 metri di altezza. Vicino a Barrea il Sangro forma le notevoli Gole della Foce, profonde fino a 260 metri.

Nel Molise il canyon più spettacolare è quello del Quirino vicino a Guardiaregia.

In Campania notevoli sono le gole presenti nel massiccio del Matese e il Vallone del Furore sulla Costiera Amalfitana che scende verso il mare.

In Puglia i canyon più rilevanti sono quelli in provincia di Taranto, soprattutto quello presso Laterza che si sviluppa per più di 10 chilometri e ha una profondità fino a 250 metri. In Basilicata è notevole soprattutto la gravina di Matera.

In Calabria molto belle sono le Gole del Raganello, tra le maggiori d’Italia con una lunghezza di 5 chilometri e profondità fino a 700 metri.

In Sicilia molto belle e particolari sono le gole che il Simeto e l’Alcantara hanno scavato nelle lave e nei basalti dell’Etna.

In Sardegna le più belle e famose sono quelle di Su Gorropu, gigantesca fenditura calcarea di 11 chilometri di sviluppo e profonda fino a 400 metri.

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